Ho iniziato a giocare a calcio a 4 anni, quando con un tiro maldestro ho abbattuto un vaso nel soggiorno di casa. All’elementari aspettavo con ansia la ricreazione per scendere sul campetto da calcio in ghiaia della scuola. Le porte erano disegnate in rosso sui muri che limitavano il cortile e la palla non usciva mai.
A casa non aspettavo altro che il citofono squillasse per recarmi sul campo da gioco: con un sasso trovato in giardino si disegnavano i pali per terra e la strada era il nostro manto erboso, il marciapiede era il nostro fallo laterale con le auto che facevano spesso invasione di campo, soprattutto alla sera quando i lavoratori tornavano a casa. Quante volte ho costruito palle con fogli di giornale e in corridoio con gli amici ho inscenato partite come se fossero finali di Coppa Campioni. E quante volte mi è toccato pulire il pavimento a causa delle sporco lasciato!
Ormai sono due anni che seguo il calcio nella nostra parrocchia e sono arrivato ad una conclusione abbastanza forte: i ragazzi non hanno più il senso di spontaneità nello sport. In un’epoca in cui la televisione trasmette soventemente partite in cui insulti, falli e scorrettezze sono quotidianità, tutto ciò ha portato ad essere sempre più sofisticati. Oramai senza un campo ben segnato, le magliette da gara, un pallone ben gonfiato, è difficile vedere un gruppo di adolescenti della nostra comunità mettersi a giocare. Non penso che sia mancanza di voglia, ma si può pensare ad un eccesso di vergogna. Una società ipertecnologica e perfetta, in cui l’immagine è molto importante, suggerisce ad un ragazzo di declinare l’offerta di giocare con una palla fatta di stracci e cartone. Se quando ero adolescente mi divertivo a giocare a calcio perché potevo fare goal o mandare in goal un compagno e mostrare a me stesso quanto ero bravo, ora questa filosofia non esiste più. L’obiettivo dei nostri adolescenti è mostrare il colpo ad effetto: non basta fare un passaggio, ma bisogna farlo di tacco e al volo. Già a quattordici anni esiste un narcisismo davvero forte.
Non bisogna però criticare questi atteggiamenti da parte dei giovani parrocchiani, neppure dire che il proprio pensiero è quello giusto, ma al contrario è necessario affrontare la situazione in maniera propositiva. Mi rivolgo agli educatori e a coloro che operano con i ragazzi: sforzatevi sempre di più a rendere il gioco una cosa semplice. Altrimenti il prossimo passo è quello di non giocare più, ma lasciarlo fare solo ai professionisti. Le partite “improvvisate” possiedono la magia del giocare, perché questa magia cancella la cattiveria, il pregiudizio e l’invidia, e inietta una ventata di gioia, felicità, spensieratezza. In tutti gli sport nel referto di gara dovrebbero inventare la riga “partita da ripetere” perché un ragazzo è andato a casa deluso o arrabbiato. Il gioco alla fine è un momento aggregativo, un modo per rilassarsi facendo qualcosa che piace. Il calcio, come qualunque sport, non deve perdere la sua essenza principale: è un gioco. Essendo gioco non deve esistere vittoria o sconfitta, dove se esce “vittoria” sei felice e contento, se esce “sconfitta” devi essere triste, deluso e quasi arrabbiato per forza. Questo ragionamento non deve esistere nel gioco.
Davanti a noi si apre un periodo molto impegnativo come l’oratorio estivo: cinque settimane di gioco. Credo che sia l’occasione giusta per dimostrare cosa significhi giocare.
Marco De Gregorio
Responsabile calcio oratorio Segrate centro